Queste statistiche sono emerse da un recente studio nazionale inglese, presentato sulla rivista British Journal of Medicine.
Quando affiancata dal trattamento radioterapico, la chirurgia conservativa della mammella assicura una sopravvivenza pressoché pari alla mastectomia. Tuttavia, nel caso di tumori di difficile identificazione, la chirurgia conservativa può determinare una rimozione incompleta del tumore e richiedere così un secondo intervento, che può essere nuovamente conservativo oppure una mastectomia.
Lo studio, guidato da David Cromwell della School of Hygiene and Tropical Medicine di Londra, ha analizzato il database Hospital Episode Statistics, contenente informazioni cliniche relative a 55,297 pazienti con tumore al seno trattate con chirurgia conservativa tra il 2005 e il 2008. Gli autori hanno quindi esaminato la frequenza di rioperazioni a distanza di tre mesi dal primo intervento, valutando se il tipo di tumore influisse sugli esiti chirurgici.
Effettivamente, le rioperazioni erano più frequenti nei casi di pazienti affette da carcinoma in situ rispetto a coloro con patologie invasive isolate. Circa il 40% dei secondi interventi erano mastectomie. Inoltre, il ricorso a un secondo intervento era più raro nelle donne anziane e in quelle affette da più morbidità.
In conclusione, tra il 50% delle pazienti diagnosticate con tumore al seno che scelgono l’intervento conservativo, una su cinque richiede una seconda chirurgia. Questa statistica sale a un caso su tre se si tratta di un carcinoma in situ. Le donne che scelgono di sottoporsi all’intervento di chirurgia conservativa devono essere coscienti di questo livello di rischio, quale deve essere altrimenti reso noto dai medici durante la decisone consensuale delle opzioni terapeutiche.