
Un eccesso di grasso corporeo, in particolare quello accumulato in sede addominale, può alterare l’equilibrio del metabolismo glucidico e lipidico e così causare iperinsulinemia o resistenza all’insulina.
Questa situazione può favorire l’insorgenza del diabete o di una malattia plurifattoriale conosciuta come sindrome metabolica.
La sindrome metabolica descrive infatti l’insieme dei seguenti fattori di rischio per le malattie cardiocircolatorie: obesità addominale, dislipidemia, resistenza all’insulina e ipertensione.
I soggetti affetti da sindrome metabolica presentano un elevato grado di stress ossidativo e infiammazione e la qualità dei grassi introdotti con la dieta sembra essere implicata nello sviluppo di questa condizione.
Gli alimenti contengono combinazioni di diversi tipi di acidi grassi, le cui proprietà dipendono dalla struttura chimica e dal numero di molecole di cui sono composti. Esistono tre tipi principali di acidi grassi: saturi, monoinsaturi e polinsaturi, presenti in quantità differenti nei cibi.
Normalmente si ritiene che i grassi saturi siano associati ad un elevato contenuto di colesterolo LDL "cattivo" nel sangue, quest’ultimo correlato ad un alto rischio di sviluppare malattie cardiocircolatorie.
I grassi monoinsaturi e polinsaturi sono invece considerati più salutari.
L’olio d’oliva ed altri oli vegetali sono ricche fonti di grassi monoinsaturi e polinsaturi. Un altro tipo di lipidi sono gli acidi grassi polinsaturi a catena lunga n-3 che si trovano nel pesce.
L’impatto dei diversi tipi di grassi sulla malattia è stato valutato mediante un intervento comportamentale di modifica del tipo di acidi grassi introdotti con la dieta. Lo studio ha analizzato l’effetto della riduzione del consumo di grassi saturi, alterando isoenergeticamente la qualità dei lipidi, sui fattori di rischio associati alla sindrome metabolica.
I risultati sono stati raccolti dallo studio Lipgene, un’analisi multicentrica internazionale conclusasi nel 2009 che ha investigato il ruolo dei grassi saturi sui fattori di rischio molecolari e metabolici della sindrome metabolica e l’impatto di alcuni comuni polimorfismi, varianti geniche diffuse nella popolazione sulla risposta alla terapia alimentare.
Lo studio ha coinvolto 417 partecipanti di entrambi i sessi con indice di massa corporea (BMI) incluso tra 20-40 kg/m2 provenienti da 8 paesi europei.
I partecipanti sono stati assegnati casualmente ad una di quattro diversi programmi alimentari isoenergetici che si differenziavano per la qualità e quantità dei grassi contenuti. I programmi prevedevano: una dieta con elevate quantità di acidi grassi saturi, una ad elevato contenuto di grassi monoinsaturi, due diete a basso contenuto di grassi ricche in carboidrati complessi e supplementate con grassi polinsaturi a lunga catena n-3.
La resistenza ad insulina è stata valutata attraverso test intravenoso di tolleranza al glucosio. Inoltre sono stati valutati alcuni marker lipidici e dell’infiammazione associati alla sindrome metabolica - metabolismo delle lipoproteine, profili infiammatori delle citochine, fattori della coagulazione e della fibrinolisi e lo stato ossidativi.
Nei soggetti affetti da sindrome metabolica la riduzione del consumo di grassi saturi non aveva alcun impatto né sulla resistenza ad insulina nè sulle concentrazioni di lipoproteine a bassa densità e colesterolo, né sui marker dell’infiammazione.
Le diete a basso contenuto in grassi hanno invece permesso di ridurre le concentrazioni plasmatiche di triacilgliceroli e acidi grassi non esterificati, specialmente negli uomini.
La supplementazione di grassi polinsaturi a lunga catena n-3 in associazione ad un dieta a basso contenuto di grassi sembra dunque la strategia alimentare più indicata per prevenire l’insorgenza della sindrome e per migliorare il profilo della malattia nei soggetti che presentano i fattori di rischio cardiovascolare.